FUORI DAI MARGINI, OLTRE LE FRONTIERE – Raccolta di abiti per i migranti di Ventimiglia

Collettiva* nacque poco più di un anno fa dalla volontà di aprire uno spazio di autodeterminazione politica orizzontale che rispondesse a due principali esigenze: costruire un laboratorio di idee e pratiche capace di declinare in chiave cittadina i temi della giustizia sociale e climatica; favorire e dare forza a percorsi di solidarietà e azione diretta.
Nel corso di questo viaggio, che ci ha portato a vivere quella che per la maggior parte di noi è stata la prima campagna elettorale, abbiamo sperimentato il terreno della politica istituzionale, con i suoi canoni, le sue liturgie, molte soddisfazioni e alcune sane incazzature. Ci siamo resi conto che la nostra comunità si regge proprio su questa doppia anima e che coltivarle entrambe significa preservarne il senso.

Non stupisca quindi, che proprie nelle ultime settimane di campagna elettorale, tra un gazebo, un riunione e un evento abbiamo immaginato e deciso di promuovere questa raccolta di abiti a favore dei migranti che transitano da Ventimiglia nel tentativo di superare il confine tra Italia e Francia.

PERCHE’ VENTIMIGLIA? COME NASCE QUESTA RACCOLTA?

Lo scorso agosto una delle nostre compagne, Cecilia Santo, ha preso parte al campo di volontariato “Confini (in)visibili” organizzato dalla famiglia Comboniana. Il campo, ideato in collaborazione con la Caritas locale, ha portato i partecipanti a toccare con mano la condizione e i bisogni di chi tenta di attraversare il confine e ha permesso loro di conoscere volontari e attivisti che alimentano una rete di solidarietà diffusa sul territorio.

Nasce così l’idea di manifestare il nostro supporto a questa rete, con un contributo materiale che non vuole essere un semplice gesto caritatevole, ma un momento di mobilitazione, approfondimento e autoformazione. Nelle settimane successive alla consegna degli abiti promuoveremo, infatti, alcuni momenti di approfondimento sul tema dei confini e sulla sistematica negazione dei diritti umani che si verifica in queste porzioni di territorio europeo.

Con queste parole Cecilia condivide con noi le emozioni di quei giorni e il senso di questa idea.

Perché Ventimiglia.
Perché finché i luoghi non li vivi sulla tua pelle, per quante siano le parole con cui li puoi descrivere e immaginare, queste restano vuote.
Vivere sulla propria pelle un luogo di frontiera vuol dire sbattere violentemente contro le ingiustizie di un tempo, come il nostro, che porta con sé immense contraddizioni. Vuol dire dare peso a ogni passo e capire che ogni passo ha un peso diverso. Vuol dire avere l’occasione di scandagliare profondamente il proprio privilegio e prenderne coscienza con fatica.
Vuol dire tornare alla propria casa con quel senso di inadeguatezza che ti fa sentire un turista affacciato sulla sofferenza altrui.
Gli uomini e le donne che aspettano il pranzo e i vestiti puliti condividono nell’anche io la meta di un viaggio impresso nei loro occhi mai fermi mentre scrutano gli instancabili treni andare e tornare, andare e tornare. Un viaggio già scritto nei loro piedi mai stanchi, che a immaginarlo proprio non ci si riesce e che corre dritto allo scontro frontale con il confine.


Questa linea sottile e invisibile che abbraccia Ventimiglia, il confine, ha forme diverse al mio sguardo: è un’onda fredda, un’autostrada rumorosa, un binario buio, un tratto di filo spinato che corre sulla collina in mezzo al rosmarino selvatico.
Io lo attraverso in treno un sabato mattina mentre il tempo sfugge tra le mie mani, tu invece ci provi diciotto volte prima di riuscirci, sotto il peso dei soli e delle lune, perché qualcuno ha deciso che così dev’essere.
E alla fine poi chissà se lo hai passato, questo confine, con una giacca sulle spalle che ha viaggiato per chilometri proprio per poggiarsi su quelle spalle lì, perché così sì, che dev’essere.

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